FRANCESCO TABUSSO: 80 anni e una vita di grande pittura

FRANCESCO TABUSSO: Maria Giulia, olio su tela, cm 125 x 125 – © Maria Giulia Alemanno

Non mi sembra vero. Francesco Tabusso, il mio amico, il mio maestro, il 27 giugno compie 80 anni. La sua è una pittura di giovinezza, una lunga, straordinaria favola dipinta che sempre incanta e commuove. Ogni quadro, ogni disegno è un’invenzione, un mondo di stupore, meraviglia e di pura, purissima poesia. E dunque, come la sua pittura, Francesco per me non ha età, benchè, da quando ci siamo incontrati, ne sia passata tanta di acqua sotto i ponti dei torrenti intorno a Rubiana.

Ho ritrovato la breve intervista che gli feci nel febbraio del 1983 e che Stampa Sera pubblicò come inizio di una pagina che mi era stata affidata dal titolo “DA TORINO … CON COLORE – Incontri ravvicinati con gli artisti che lavorano in città”.
Con Francesco giocavo in casa. Da anni frequentavo il suo studio affacciato sul cielo della Crocetta, quasi ogni giorno collaboravo con lui, mai stanca d’imparare. A distanza di tanto tempo mi accorgo di non aver fatto altro che trascrivere una delle nostre  conversazioni surreali, quelli che lui chiamava “ i nostri voli pindarici” ai quali d’abitudine ci lasciavamo andare, parole a ruota libera mentre si dipingeva, immagini anch’esse acchiappate al volo. Forse l’avevo fatto di proposito, chissà, per meglio rendere l’atmosfera dello studio di Corso Galileo Ferraris, due piccole stanze dal pavimento di piastrelle color ciclamino, contenitori di mondi fantastici, di storie di montagne e mari nostrani , o di narrazioni su tela di avventure lontane, un viaggio in Russia, uno in Africa ed un altro a Colmar per immergersi appieno nel dramma di Grunewald.

Ricopio e riapro dunque anch’io il libro dei ricordi per augurarti un meraviglioso compleanno, Cecco, con immenso affetto e immutata, profonda gratitudine.

Raccontare un quadro? E’ un’idea che mi piace. Quale vuoi che ti racconti?

E qui sorge il problema. Mi aggiro nello studio, facendomi spazio tra fogli e pennelli e tubi di colore e quadri incominciati e mai finiti che intralciano il passaggio. Sono circondata da ragazze dipinte a grandezza naturale su tavole di legno abbandonate ovunque. Una è tutta sola e nuda in un bosco, un’altra fa il bagno in un torrente mentre una trota sospettosa la sta a guardare, un’altra ancora fissa il vuoto mentre un contadino le parla all’orecchio. E poi c’è quella coi capelli neri e la pelle di burro sdraiata in un prato e una bionda dagli occhi dorati e tristi che in un prato più fiorito studia pensierosa le farfalle. Tutte, se solo potessero, ne avrebbero di cose da dire.
Ma Francesco Tabusso decide di rispolverare i ricordi. Fruga tra i libri che parlano di arte, di botanica, di minerali, di animali, di favole della sua infanzia. Compare una quantità di cose impensate, come dal cappello magico di un prestigiatore: tortore impagliate, fotografie di bimbe che sembrano madonne, occhiali da sci, gessetti, ricette di cucina. E un albun rilegato in tela rossa, con le pagine di quella carta da macellaio gialla e ruvida che ora non si trova più, manco a pagarla una fortuna.

Qui dentro c’è tutto il mio passato. I quadri di quando frequentavo lo studio di Felice Casorati, gli altri nati dalle gite in montagna quando mi fermavo nella baita di Pin dal Batocc e c’erano tutte le sue figlie bianche e rosse che mangiavano in penombra la polenta. C’è anche la parentesi di Bergamo dove ero andato ad insegnare al Liceo Artistico e dove i quadri li facevo nascere come funghi perché stavo proprio bene o proprio male. Ma erano sempre emozioni intense e i ragazzi a scuola mi adoravano e io amavo loro che mi scrivevano delle letterine a fine anno capaci di sciogliere il cuore di un orco.

Si susseguono le riproduzioni dei dipinti di quel periodo con le note a lato e , a volte, la cartolina del posto che li aveva ispirati, le case rosa di Varigotti e la vegetazione verdissima e lucida dei boschi di Rubiana.

Questo l’avevo chiamato “Allegoria immaginaria senza allegria gambe all’aria” e quest’altro… adesso te lo spiego. S’intitola “Sogno –presagio” e non è altro che un mio incubo a lieto fine. C’è un vecchio molto ammalato che dorme in un’alcova. Ad un tratto la figila che riposa di sopra si sveglia perché sente dei rumori strani vicino alla porta e si accorge che la Morte sta entrando in casa per portarselo via. Allora lo chiama e gli dice di andar fuori, di non farsi trovare, che la Morte si è messa una maschera da Carnevale ma lei l’ha riconosciuta e, per gabbarla, l’unico modo è quello di riservarle la sorpresa di un giaciglio vuoto. E così verrà sconfitta con i corvi appollaiati sulla sedia della cucina, illuminata da Bergamo che brucia sullo sfondo. Per la Morte ci saranno al massimo un piatto di pasta e ceci, due uova al burro ed una bottiglia di vino, per ubriacarla. Mi pare che nel sogno mi fossi identificato con il vecchio che poi si era nascosto. E infatti eccomi qui.

Nella vita lo conoscevi?

Sì, era un contadino bergamasco da cui andavo spesso a mangiare e che mi spiegava un sacco di cose sulla terra e le stagioni e quel che bisogna fare o non fare in campagna a seconda della luna.

E la ragazza?

Si chiamava Linda e per me era la più bella del mondo. Dopo ne ho conosciute tante altre che erano le più belle del mondo ma lei…L’ho dipinta mille volte a memoria e forse sono quelli in cui compare lei, triste, allegra, distaccata o amica, i quadri più belli della mia vita.

E i santini sulle mensole?

Li ho sempre collezionati. Forse per la loro ingenuità e perché dietro, anche lì, ci sono sempre dei racconti che non finiscono più. Pensa solo alle tentazioni di Sant’Antonio e a San Francesco che parla col lupo e chissà cosa gli dice….

Che emozioni ti procura oggi questo quadro?

Le emozioni ovattate del ricordo. Qualcuno ha detto che Tabusso vive le situazioni per poterle raccontare. Sarà anche vero, ma di certo il sogno di Linda non me lo ero andato a cercare.

Maria Giulia Alemanno. Per te Francesco, sempre Lellina

in STAMPA SERA –  Da Torino…con colore, venerdì 4 febbraio 1983

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