Beppe, particolare di Interno del Chietto
Ho aspettato fino ad oggi, per ricordare in questa afosa serata d’estate
Francesco Tabusso,
il mio maestro, il mio amico. Molti hanno parlato di lui quando se n’è andato, spero a dipingere nel Paradiso dei Pittori, se mai esiste, in una notte bianca di neve, la sua neve caduta per trasformare Torino in un grande quadro coperto da un lenzuolo impalpabile. Allora non me la sono sentita di scriverne.
Quando l’ho saputo ero lontana, sotto altra neve, quella gelida ed estraniante degli immensi territori canadesi. Mi sono ritrovata sperduta e sola. Ho molto pensato in silenzio a lui, alla lezione che in tanti anni mi aveva impartito, ai preziosi momenti trascorsi insieme a far pittura e a parlarne, mentre si mischiavano i colori. E’ stato il mio modo d’accompagnarlo, di sentirlo ancora vicino.
E per molti mesi, altro silenzio.
Il tempo cura, dicono, il tempo lenisce. E dalla scatola del tempo ho recuperato questo articolo, pubblicato su Stampa Sera nel 1980. Racconta di quella volta che eravamo saliti al Collombardo per dipingere il pilone del Chietto, come gli aveva chiesto Batista. Fu un’esperienza fantastica della quale parlammo ancora per anni, anche quando Magna Enrichetta e Batista se n’erano già andati, nel Paradiso dei Pastori, se mai esiste. Non so dove siano finiti i miei disegni originali e quel poco che rimane sul foglio è sgualcito ed ingiallito. Ma poco importa. Non so se sul pilone di Batista sia rimasta ancora traccia del dipinto, nè so se al Chietto ancora qualcuno della famiglia torna a portare le vacche al pascolo d’estate.
Tutto cambia, tutto passa. Ma nel cuore ancora risuonano le nostre risate, ancora cantano i colori, ancora Francesco mi parla. Felice.
★★★★
Interno del Chietto
tecnica mista su carta di Maria Giulia Alemanno – 1980
Riproduzione su STAMPA SERA
Vivere a duemila metri negli alpeggi della Val Di Susa
Cemento armato per la stalla e un pilone per ospitare i santi
La baita di Pin del Batôc diventerà modernissima – Per ora offre ancora toma, polenta, letto di fieno e (dipinta di fresco) una Madonna di burro.
Il Chietto è una baita, la baita di Pin dal Batôc, e Pin dal Batôc era un pastore che al Chietto aveva passato tutte le estati della sua vita, quando la vita gli faceva ancora compagnia. Il Chietto ora si sta ammodernando. A duemila metri dove si trova, ci arriva anche una strada, quella che da Condove porta al Collombardo, sicché ora lo si può raggiungere persino in macchina, e senza troppa fatica, con il consenso del bel tempo. Avrà presto una stalla in cemento armato e chissà che oltre alla strada non ci arrivi prima o poi la luce elettrica.
Batista, – rigorosamente con una sola t- il figlio di Pin dal Batôc, parla con orgoglio di un bagno che il prossimo anno dovrebbe abbellire l’interno del Chietto, il primo bagno forse nella storia delle baite in Val di Susa. Ma per adesso la struttura della parte abitabile del Chietto è ancora quella che aveva ospitato il vecchio patriarca, due stanzette anguste e comunicanti, umide e buie, perché la luce filtra solo attraverso alcune finestrine quasi inesistenti. Alle due camere superiori, anch’esse minuscole e trappiste, si accede da una scala esterna. Di nuovo c’è soltanto il «pilonetto» che Batista ha fatto costruire “perché di già che si ospitano gli amici, poco costa trattar bene anche i santi”.
Batista, un anno fa, aveva chiesto al pittore Francesco Tabusso se ai santi da mettere nella nicchia poteva pensarci lui. Al Chietto tutti lo consideravano uno di famiglia da quando nel ’62, ci era arrivato dopo aver camminato per ore con suo fratello Gustavo attraverso le montagne, seguendo le mulattiere e le tracce segnate sulle carte militari, altro che la strada di oggi! Francesco naturalmente ha detto di sì ed ha trascinato anche me nell’avventura.
E’ così che saliamo al Chietto un pomeriggio di metà settembre, la macchina piena di colori, pennelli e indumenti pesanti, perché a quell’altezza, quando fa brutto, non c’è da scherzare. Ci attende invece un sole caldo ed invitante, una giornata incredibilmente tersa senza una sola nube, con le montagne che si stagliano nette contro il cielo. Le si può contare ad una ad una, e anche il Monviso, che è ben distante, ci sembra di toccarlo con un dito. Salendo abbiamo visto via, via scomparire gli alberi e ora l’unico verde che domina è quello degli alpeggi, in alcuni tratti ingiallito, in altri più intenso, in altri ancora addirittura tendente al rossastro. E poi c’è il grigio delle rocce e delle baite. Alcune di queste sono disposte in fila lungo un pendio, altre isolate, ma si rischia di confonderle con le pietre tanto sono mimetizzate e inserite nell’ambiente. Anche il cemento armato della nuova stalla del Chietto, che giù a Torino avevo immaginato come una grossa violenza al paesaggio, acquista, tutto sommato, una dignità neutra che non disturba. Batista è ancora al pascolo ma ad attenderci troviamo sua moglie Rita e i due bambini che si nascondono dietro di lei, abbassano la testa e sbirciano con un occhio solo.
“Seguitemi – dice la donna- Il Chietto, per quest’anno l’abbiamo lasciato ai muratori che ci lavorano, e noi ci siamo sistemati poco più in là, da magna Enrichetta, dove c’è posto per ritirare anche tutte le vacche».
Magna Enrichetta. la sorella di Pin dal Batòc, ci aspetta sferruzzando seduta al lungo tavolo del cortiletto. Imponente e carismatica, ha un’eleganza tutta sua che le deriva da una originale ricerca nell’accostare i colori e dal modo in cui articola i discorsi, in un dialetto ricco di sinonimi e sorretto dalla fantasia. Se non sapessimo che lei la montagna la vive nel profondo da quando è nata, sfidandone le fatiche e gli stenti, potremmo scambiarla per un’anziana signora in villeggiatura.
Magna Enrichetta non vede l’ora d’interrogarci sul pilone. «E alura, allora, che santi vogliamo dipingere?» chiede prima in piemontese e poi in italiano in uno strano gioco che adotterà anche in seguito, prolungando le frasi a dismisura. Inventiamo sul momento che un san Giuseppe non ci starebbe male, visto che Pin dal Batôc si chiamava in realtà Giuseppe Carnino, anche se con questo nome erano in pochi a conoscerlo. Poi ci vorrebbe una Madonna contadina, bianca come il burro e con le guance rosse, tanto a dipingere una Madonna in un pilone non si sbaglia mai. E il terzo potrebbe essere Giovanni Battista, per ricordare il nuovo capo famiglia. Queste sono le proposte ma Francesco si dice ben disposto a rispettare qualsiasi ordine e desiderio del committente. L’argomento è coinvolgente e non può che essere affrontato in modo collettivo. Se ne discute ancora mentre si mangia al lume delle candele e delle lampade, in un’atmosfera che ricorda i quadri di Georges de La Tour, luci tremolanti che creano effetti di trasparenze sui volti e sulle mani.
Francesco ed io stiamo perdendo la nozione del tempo. Siamo arrivati da poco eppure ci sembra di vivere tra queste pietre da anni. Tutto ci è familiare, il camino, i paioli di rame, le cataste di legna su cui giocano i gatti. Giù in città siamo tra quelli che prendono le pillole per dormire ed ora rischiamo di chiudere gli occhi mentre ancora stiamo assaggiando la toma. Credo dipenda dal dover compiere i gesti nella semi oscurità, dall’intuire piuttosto che dal vedere persone ed oggetti. Non è certo un problema di stanchezza. Oggi non abbiamo lavorato per niente.
Studiamo le figure riunite attorno al tavolo. Rita col suo viso antico, il naso appuntito come quello di un volpino ed identico a quello di Marco e Beppe, i suoi due bambini, quasi tutti e tre fossero segnati da un marchio di fabbrica. Magna Enrichetta che ricorda una bambiola russa col fazzoletto a fiori legato sotto il mento. Batista con le rughe profonde di chi ha preso tanto sole e tanto vento. Mario, il garzone tuttofare, magrissimo e lungo, I capelli ispidi e la barba da radere, gli occhi azzurri infossatI, pochi denti e una gentilezza selvatica nel porgere il pane. Davvero non abbiamo bisogno di attingere alla fonte dell’iconografia tradizionale i modelli per i nostri santi. E’ quassù che dobbiamo guardare.
Dopo lunga ed accorata discussione si decide all’unanimità che al posto di San Giuseppe dovrà esserci Sant’Antonio Abate “perchè da queste parti è meglio cercare intrercessioni per le bestie che per gli uomini”. sentenzia magna Enrichetta e tutti annuiscono. E poco importa se poi al mattino un grido acuto, quasi umano, ci fa sobbalzare dal nostro comodo giaciglio nel fienile sopra la stalla: “Vi preparo io un letto che in città ve lo sognate, col fieno tenero che sembra piumino d’oca” aveva detto Batista la sera prima. E’ il canto mortale di un galletto a cui hanno appena tirato il collo per trattarci con ogni onore a mezzogiorno.
Verso le otto torniamo al Chietto per iniziare il lavoro. Abbiamo deciso di Usiare gli acrilici . Non ci piacciono per niente ma sono comodi. asciugano subito e ci permettono di procedere spediti.
Il dipinto va avanti tra amenità e scarso misticismo: ” Guarda che la Madonna ha un’occhio storto, la colomba sembra un pesce e Gesù bambino ha una testa che non finisce più. Ma forse l’aggiustiamo.” dice Francesco ridendo.
Chiediamo consigli e pareri ai muratori ed ai due bambini che hanno voluto timidamente accompagnarci e che abbiamo eletto a garzoni di bottega. Così non ci si annoia e si smitizza l’idea che i pittori debbano essere necessariamente avvolti nella loro ispirazione per produrre qualcosa di dignitoso. E speriamo che il pilonetto, in un modo o nell’altro, lo diventi.
Ci fermiamo ancora un giorno, mangiamo latte e polenta secondo la miglior tradizione montanara e partecipiamo sempre più alla vita quotidiana dell’alpeggio. Piccoli momenti sereni. Marco e Beppe che non si vergognano più e ci stanno sempre vicini, offrendoci doni inconsueti come chiodi arrugginiti e piume di gallina , e non cessano di raccontano storie bizzarre, forse inventate da magna Enrichetta che è una fonte inesauribile di creazioni fantastiche: «C’era una volta un bambino che non aveva mai visto una toma…»
Trentina, la mucca del Chietto
tecnica mista di Maria Giulia Alemanno- 1980.
Riproduzione su Stampa Sera