Sogni e segni sul sentiero dei Franchi
di Massimo Olivetti
Il cammino come ascesi, il bordone come compagno, la conchiglia come conforto. Il pellegrinaggio nell’alto medioevo più che una devozione religiosa, un atto di certificazione della fede, è l’uscita da un mondo che è diventato angusto e locale, è il desiderio, quasi la necessità, dell’universale, del ritrovare il meraviglioso nella scoperta della diversità dei luoghi, delle genti, delle usanze. E così vanno i pellegrini. A piedi, da Roma a Santiago De Compostela, a piedi da Roma a Canterbury, a piedi da Roma a Gerusalemme. Vanno con compagna la fede e la certezza di essere accolti, ristorati, sostenuti, da altri compagni come loro nella fede, ma che l’universale lo cercano dentro di sé, nella contemplazione, nell’ascesi, nel silenzio di abbazie e conventi, costruiti fuori dal mondo, in eremi sperduti e nascosti da boschi, monti e neve. Ritrovare la magia dell’andare e l’incanto dello stare, l’incontro con la diversità delle geografie e dei paesaggi e la profondità degli universi interiori e circoscritti, ci porta con la nostalgia dell’umiltà a questa mostra.
E’ un’esposizione ispirata e dedicata. E’ispirata dal fascino che ancor oggi esercitano Montebenedetto e Banda, i loro muri, la morbida e rigorosa severità delle loro ossa di pietra, la bellezza dei boschi che li avvolgono come un’incessante ripetizione di sommessi echi gregoriani. E’dedicata ai piedi dei pellegrini, ai loro bordoni, allo stupore immobile nel cambiamento.
Ed ancora questa mostra è il desiderio di continuare il pellegrinaggio attraverso e con l’arte, di ricomporre nei quadri le atmosfere della seduzione della scelta di una vita di contemplazione e, viceversa, dell’impulso dell’andare alla ricerca del sacro, forse già portandolo dentro di sé, di trasmutare con alchemia psichica i piedi in pennelli e l’armonia dei chiostri in colori. Perché l’arte è un pellegrinaggio nel tempo che trasferisce emozioni e sensazioni, valori e ideali nei secoli, così come il pellegrino trasportava fede e conchiglia da Roma a Santiago, da Roma a Canterbury, da Roma a Gerusalemme.
Ventinove sono oggi gli artisti che, novelli pellegrini, ritornano a Montebenedetto e Banda, per glorificare nei loro lavori la purezza di un ritorno e di una sosta che ristori, nel lungo viaggio che ognuno di loro ha iniziato per rendere i segni e i sogni araldi del tempo.
I colori di Germana Albertone colano liquidi, rendono indistinti alberi e rocce. Limpida, in primo piano, solitaria, la massa della Certosa di Montebenedetto. Come per un contrasto di solidità e certezza. Rifugio per piedi consumati e anime inquiete. Il rosa della pietra richiama il giallo-arancio dei crinali dei monti, squarci luminosi che illuminano il pensiero dell’accoglienza.
Non so se sia un converso o un pellegrino quello che si staglia in primo piano nell’opera di Maria Giulia Alemanno. Più un converso, forse, perché ha l’espressione intensamente pensierosa di chi sta riflettendo su provviste da conservare e campi da coltivare. Monaco contadino, solido come il paesaggio circostante, virato su un giallo carico e caldo. Sono i colori dell’autunno, di un ottobre luminoso, che sorride nelle sue pennellate, capaci di rinnovare la magia dei boschi e dei monti.
Una tavola di legno antico come supporto perché Daniela Allosio ha scelto Banda come luogo di vita e “luogo dell’anima”. Poi sopra, i colori ad olio a dar forma e esprimere l’incanto dei simboli. Una croce di legno a dividere tavola ed immagini. Una luna coronata di stelle, una strada tra alberi carichi di neve, la punta del campanile, tutto osservato con gli occhi di un certosino monaco e gatto.
E’ la bifora che guarda la vasca o viceversa.
L’occhio immobile della bifora, aperto sul tempo, o il perpetuo scorrere dell’acqua dalla fontana? L’importante non è il significato ma l’atmosfera che Giuseppe Arizzio ricompone. Ha usato i pastelli per dar corpo e crema agli oggetti che diventano partecipi della nostra esistenza.
Fumo, catrame, sabbia, acrilico su tela. Daniela Baldo vuole la materia ed anche il dramma, scandito da squarci di rosso e segni di fumo. M’immagino la Certosa che resiste ad un temporale o sepolta da una tormenta di neve. Sono robusti i tagli di colore per incidere il corpo di Montebenedetto e isolarlo dal contesto, come lo sguardo di un pellegrino sopravvissuto alla pioggia o alla neve che infine approda al rifugio.
Anche il gioco non può essere escluso da un pellegrinaggio. Alfredo Billetto interpreta e rappresenta la letizia. Scompone le immagini danzando coi colori. Verdi e blu si incrociano e formano un puzzle cromatico. La Chiesa di Banda diventa un giocoso arlecchino illuminato dal calore della tavolozza. A noi non resta che unirci alla danza.
Ivo Bonino:IL SILENZIO DELLA CERTOSA olio su tela cm 70 x 50 – 2010
Molta è la poesia nel quadro di Ivo Bonino. Gli alberi incrostati di neve guardano e sorvegliano dall’alto tetti e muri. Il bianco domina, un bianco di silenzio, ma anche un bianco di pace. Tutto è affogato o forse affondato nel manto nevoso e siamo chiamati e convocati per unirci e fonderci a quella dimensione silente.
L’universo è un tondo, dentro tutto ci può stare. Anna Branciari ci mette un sole giocoso, quasi fumetto, che sorride alla mole della Certosa, un fazzoletto che sventola come drappo, insomma un mondo scherzoso ed allegro, dove, forse, si può incontrare l’illusione di una “perfetta letizia”.
I cieli di Antonio Carena sono talmente noti che sono ormai paradigma simbolico. Qui trascorrono su una massa rossa, un tappeto di rose purpuree. Forte il contrasto tra la gentilezza serena del cielo e la pulsazione scarlatta. E’ la continuità distaccata delle nuvole che contempla l’esplosione di colore della vita che sboccia, fiorisce e velocemente sfuma.
In fondo si tratta di una farfalla un po’ schematica, e di due uccellini rossi. Sullo sfondo la Certosa. Linee rette delimitano gli spazi erbosi. Tutto molto semplice e, se vogliamo, apparentemente formale. Ma nel quadro di Francesco Casorati vibra una tenerezza infinita. Le macchie rosse degli uccelli contrapposti che guardano la farfalla immobilizzano anche il nostro di sguardo. Torniamo bambini per poter confondere i nostri giocattoli di legno o metallo con gli altri giocattoli vivi, uccelli e farfalle, che la natura ha creato.
Una ragnatela di scomposizioni. Frammenti di immagini che si sovrappongono, per Venere Chillemi la realtà si disarticola e si frattura. La Certosa è ridotta all’essenza della propria proiezione architettonica, eterea e quasi irreale nel vortice della materia circostante. Eppure è proprio questa mancanza di solidità a renderla concreta e oggettiva.
Scherziamo, giochiamo con i nomi e le loro significanze. L’ironia di Pippo Ciarlo non è irriverente, ma affettuosamente vicina alla devozione. In fondo il certosino, originariamente, era un formaggio d’alpeggio, creato dalla cura e dedizione dei monaci e così con delicato umorismo la materia-formaggio si sovrappone all’immagine della Certosa.
La serenità è al tramonto per Luisella Cottino. Ricerca la sensazione di sospensione che si avverte nei passaggi di luce e nelle atmosfere immobili e rarefatte. Certosa ed alberi assumono una dimensione di romantico isolamento, quasi d’attesa di altri innumerevoli tramonti.
Solo una stretta finestra su uno spicchio di cielo. Una fessura imprigionata dai blocchi di pietra. Adriano Franco sottolinea l’identità tra natura, il bosco e l’opera dell’uomo attraverso il paradosso della scissione dell’apparente divisione. Per unire e congiungere egli volutamente separa gli elementi.
Gli azzurri di Andrea Gammino, gli azzurri del cielo e quelli dei riflessi sulla neve. E’ un acquerello apparentemente semplice, ma profondo ed intenso. Non c’è da aggiungere nulla per non interrompere lo scorrere di una poetica genuina ed essenziale. La Certosa è là al fondo di una conca ma si allarga a riempire tutto lo spazio.
Uno scoiattolo, una donnola, una civetta ed anche altri, tutti dalla stessa radice, tutti dallo stesso tronco. Luca Germena recupera le esistenze che sono imprigionate in legni modellati dal tempo. Il suo è uno sguardo dentro le cose; scolpisce con gli occhi, prima che con lo scalpello. E affranca dai vincoli della materia animali, persone, essenze, fissate nell’attimo di recuperare il volo della libertà.
Italo Gilardi: CERTOSA DI MONTEBENEDETTO olio su tela cm 40 x 50 – 2010
Italo Gilardi è sempre delicato. La pittura per lui è una carezza. La sua Certosa si scioglie in una sera d’estate, in un tramonto dolce e malinconico. E’ spontaneo sentirsi partecipi della serenità del momento, avvolti dalle ombre che scendono, confortati da una pittura che accoglie e avvicina.
Un ritorno notturno. Il contadino, il sacco, la Certosa, la sera. Ma una sola dimensione psichica, la sensazione di accoglienza che il volume della Chiesa proietta sulla figura e sul paesaggio. Gabriel Girardi ha in questo suo notturno colto il climax, dosando, in un crescendo graduale, gli effetti espressivi.
E’ un lavoro antico quello di Lia Laterza. L’impostazione è tradizionale, precisa, curata. Vuole che la leggibilità dei soggetti s’imponga e si affermi. Ma i suoi pennelli dispongono i colori per circondarli di un tocco di poesia. Delicato è il giallo dei fiori nel prato, un soffio di dolcezza che rende armonica la composizione.
E’ una pellegrina singolare quella di Adriana Lucà. Nasce dalla terra e della terra ha la forza interiore. Il volto è deciso, consapevole della sostanza che la compone. Gli occhi chiusi non cercano, sanno. Una pellegrina che forse non ha bisogno di andare, ma che, certamente, sa dove stare.
E se non fosse nato in una grotta a Betlemme ma lì alla Certosa di Montebenedetto? Si può sognare e nel sogno cambiare il mondo e la storia purchè se ne conservi anima e spirito. Gabriella Malfatti ci regala il suo Presepe, una nascita santa immersa nella neve dove anche le processioni dei monaci si trasformano in bianche impalpabili scie.
Prevalgono i bruni nell’opera di Adelma Mapelli. Tronchi e cortecce si colorano di ocra, marroni sfumati, gialli e rosa. E’ una scelta cromatica che separa dal contesto il saio bianco del Certosino che attraversa il ponte, funzionale a isolare la figura nella sua meditazione. Il monaco è chiuso in una propria sfera di intimità e il suo candore lo avvolge e lo protegge.
Un gatto ed un monaco, due certosini. Clara Marchitelli Rosa Clot traccia una linea di continuità nel tempo. La Certosa, la sua navata, il suo “ sacro”, esistono e resistono perché i “guardiani” si succedono. Forse si trasformano in fattezze e natura, ma mantengono la continuità della funzione.
Il tempo può rovinare, intaccare, segnare, ma resta il corpo anche se scarnificato. Franco Mercuri coglie l’orgoglio della sopravvivenza, la solennità di vestigia che hanno resistito agli insulti del tempo e continuano silenziosamente a testimoniare le esistenze che le hanno costruite, vissute, abitate.
Il trionfo della Certosa è nell’esplosione di papaveri, fiordalisi, fiori di campo. Angela Pansini inneggia alla vita, alla rigenerazione, alla rinascita. Ed è come se i suoi fiori trasferissero colori e profumi anche alle stesse mura, alle stesse pietre, alla stessa Banda.
C’è del medioevale in Gianni Sesia Della Merla. La solennità delle processioni di pietra dell’Antellami, l’idea di scolpire la vicenda in bassorilievo. Nel registro superiore, il notturno, visto dall’alto, si ammorbidisce, perde la ieraticità per chiamare al coinvolgimento. La sovrapposizione dilata ed amplifica il concetto. La luce delle torce crea l’atmosfera del ricordo.
Francesco Tabusso: …I PELLEGRINI tecnica mista cm 50 x 70 – 2010